Katarte / Massimo Campigli: un mondo maestoso, solenne, tutto al femminile
Ritratto di Olga Capogrossi, (part.) 1959 - 60, olio su tela
Biglietti non disponibili
Fino al 29 Giugno 2014
” Ho cominciato a dipingere delle donne e continuerò a dipingere delle donne, niente altro che delle donne. Questo corrisponde, se voglio parlare solo di pittura, al fatto che la donna è il soggetto perfetto. Nell’arte del mondo intero, c’è sempre la donna, l’ uomo è sempre in secondo piano. E non potrei concepire altro “. ( Massimo Campigli )
Max Hilenfeld (1895-1971), poi Massimo Campigli , nasce a Berlino da Paolina Luisa Hielenfeld, giovane ragazza tedesca di estrazione borghese. Per evitare lo scandalo di un figlio a 18 anni, il piccolo Max viene portato in Italia a Settignano (Firenze), dove verrà allevato dalla nonna, che figurerà agli occhi del bimbo come la madre. Vivrà la sua giovinezza prima a Firenze (1899) dopo che la madre sposa un facoltoso inglese, poi a Milano. A quattordici anni, Max verrà a conoscere casualmente la verità su chi fosse realmente la madre, lasciando un’impronta determinante nella psiche del giovane che vedrà da quel momento l’universo delle donne con occhi singolari, donne quasi sconosciute, immobili e insieme sfuggenti e distanti; è in definitiva una lunga meditazione sull’enigma femminino. È la donna idealizzata, ieratica, Dea-madre ed emancipata protagonista della modernità allo stesso tempo, donna archetipo che accoglie in un abbraccio la famiglia ma anche elegante figura che prende il metro parigino.
Silenzioso e solitario, Massimo Campigli bambino osserva e sogna. Guarda, scopre, si meraviglia. Immagina e trasforma la realtà sublimandola in gioco simbolico, camuffandosi da selvaggio, da soldato, diventando Re dei tartari o incontrastato Sultano di un harem di odalische. Ma la figura della madre, il ruolo e l’ importanza che le donne rivestono nella sua vita sono di straordinario rilievo per la sua arte. La donna la vede come un essere eccezionale, ma allo stesso tempo un essere umano dalla grande semplicità, capace, oltretutto, di colmare il vuoto che nella vita può essere lasciato dagli uomini (da un padre).
E’ proprio durante l’infanzia che Campigli inizia a frequentare i musei e nella solennità di quelle mura si innamora per la prima volta. Un amore ideale, idealizzato; un sentimento tornito di continui confronti tra figure femminili scolpite e dipinte, perfette nella loro essenza, e donne vere, vive, incomprensibili ma presenti. Il suo immaginario si arricchisce di quel repertorio di signore ingioiellate, nascoste in gonne e corpetti, oggetti di galanterie maschili a lui, bambino, ancora ignote. Divenuto artista, Campigli eleva le visioni ammaliatrici vissute in gioventù a leitmotiv della sua ricerca e riserva alla condizione infantile un’attenzione speciale, manifestata nei numerosi ritratti fatti a bambini.
La dimensione infantile non lo abbandonerà più e permetterà alla sua fantasia di prendere il predominio sulla realtà per rendergliela plausibile. Scrive infatti: “Non mi sono mai rifugiato nel sogno, nell’infantilismo, ci sono semplicemente rimasto, non ne sono mai uscito”.
L’Arte e la letteratura durante gli studi classici muovono in lui un interesse speciale, tanto da portarlo, non ancora ventenne, a lavorare al Corriere della Sera ed a frequentare l’entourage futurista meneghino, conoscendo maestri come Umberto Boccioni e Carlo Carrà. La sua formazione avviene tra Firenze e Milano, in quegli anni città artisticamente vivaci. Dopo la sofferta parentesi della guerra, italianizzato il cognome in “Campigli”, diviene corrispondente da Parigi del Corriere; nel 1919 la città è il cuore del Ritorno all’ordine, di quel rinnovato dialogo con la classicità che percorre l’Europa, e che molto influenzerà l’artista.
Affascinato dall’ arte etrusca e dall’archeologia, l’artista vive un’evoluzione nel suo modo di dipingere, avvicinando la sua tecnica all’ affresco, utilizzando pochi colori e stilizzando figure e oggetti. “L’influenza che subii più a lungo fu quella dell’arte etrusca che nel 1928 diede una svolta alla mia pittura. Si intende che conoscevo come ogni altro l’arte etrusca. Ma al Museo Archeologico di Firenze tutta la mia attenzione era andata sino allora agli egizi e per un’arte che non fosse precisa e geometrica non avevo occhi. Solo nel 1928, in una visita a Roma al Museo di Villa Giulia, mi trovai pronto a ricevere in pieno il coup de foudre. Tale e quale come si può incontrare ripetutamente una donna che siamo destinati ad amare”.
Educato e disarmante, uomo solitario, nella sua pittura si aggrovigliano magiche geometrie, allegorie e simboli (in lingua originale lesse Freud e Jung ); fu anche scrittore intimo e sofisticato. Una pace interiore traspare dalle sue tele attraverso la purezza delle pennellate, la sua pittura è sempre stata un’ incessante analisi di meticolose proporzioni, di armonia e di equilibrio.
La mostra. Oltre ottanta sono le opere, dagli anni Venti agli anni Sessanta, provenienti da celebri musei e raccolte private. Donne eleganti, impreziosite da gioielli, ma fragili e misteriose. Ad arricchire l’evento, il catalogo a cura di Stefano Roffi, realizzato con gli Archivi Campigli e pubblicato da Silvana editoriale, con gli interventi di Luca Massimo Barbero, Nicola Campigli, Mauro Carrera, Nicoletta Pallini, Paolo Piccione, Stefano Roffi, Rita Rozzi, Sileno Salvagnini, Eva e Marcus Weiss. Cinque le sezioni: la ritrattistica, con le effigi di personalità del mondo della cultura, ma anche amici, signore belle e famose; la città delle donne, che accosta opere che rivelano l’ossessione per un mondo che pare tutto al femminile; le figure in sé prive di identità ma caratterizzate da scene di gioco, spettacolo, lavoro; i dialoghi muti, coppie vicine spazialmente ma incapaci di comunicare, prigioniere del proprio mistero; gli idoli, dall’evoluzione dalle figure idolatriche tratte da Carrà negli anni venti a quelle primitive dagli anni cinquanta. Per la prima volta in una mostra, il coinvolgente accostamento delle quattro enormi tele che Campigli teneva nel proprio atelier.
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